Otto ore e mezza di bracciate dall’Isola D’Elba a Follonica

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Ecco la cronaca dettaglia di un’impresa natatoria (Internazionale di Nuoto Pinnato di Gran Fondo) raccontata da un protagonista: il veneziano Sergio Richard, che ha coperto il tratto di mare che divide l’isola d’Elba dalla costa toscana in circa 500 minuti (la distanza reale è di 32 km, ma il concorrente ne ha percorso per errore di… marcia una decina in più).

Sabato sera 19 agosto 1981 abbiamo aspettato i Bulgari ma non sono venuti: sono venute invece veloci nubi e folate da scirocco. L’Elba ci ha salutato così con il caldo umido dei venti del Sud, con tanti manifesti di benvenuto appesi dappertutto, con il delegato di spiaggia della Capitaneria di Porto che, affannandosi con un megafono, è riuscito a far ormeggiare in bell’ordine nel porticciolo di Cavo tutte le barche che ci avrebbero accompagnato per i 32 km della traversata sino a Follonica.

Domenica, 5 e mezzo sveglia e lo scirocco è presente rinforzato e deciso, le nubi volano basse.
Al controllo medico tutto bene, tre medici mi visitano: cuore – pressione – polmoni, tutto riportato in numeri su alcune tabelle. I medici riempiono sempre un sacco di tabelle. Uno mi dice che devo ringraziare la mamma per il cuore che mi ha fatto. Lo sapevo già e non ho voglia di scherzare.

Guardo Viarengo, il vincitore della scorsa edizione, che brontola in genovese ed è torvo in volto, gli hanno detto che il mare è mosso.
“Alessandro piantala. Va a farti palpare.”. E gli indico i tre sanitari. Ci va di controvoglia e mi accorgo di essere nervoso. Mi metto a contare gli altri: siamo in quindici invece dei diciotto annunciati dal giornale locale. Ci dovevano essere anche i nazionali della Bulgaria, avevano anche telegrafato che sarebbero venuti. Sono venuti due Carabinieri del Centro di Napoli e della nostra Nazionale, Ottino da Torino, Viarengo da Genova sempre primo o giù di lì sulle lunghe distanze; inoltre quelli di qui si sono allenati da matti, hanno tradizioni da mantenere e di là c’è tutta Follonica ad aspettarli con il sindaco in testa. Mi basta, esco dall’albergo e mi arrabbio con il vento.

Sono passate le sei da un pezzo e comincia a far chiaro; il mare sbatte le sue onde a piccole frustate sulla sabbia della ristretta spiaggia di Cavo. Ci siamo più o meno unti tutti. Io uso pasta di Fissan ed un grasso inglese per la pelle, ne viene fuori un intruglio giallastro che però funziona, niente tagli ne vesciche, dopo tre o quattro ore d’acqua il più stupido arrossamento diventerebbe un buco. Altri usano grasso di vaselina.

Ormai sono quasi le sette, il Direttore di gara avverte che mancano dieci minuti alla partenza. Indossiamo la muta e le pinne. Mi metto solo il calzoni, fa troppo caldo per infilarsi anche la giacca e sputo nella maschera.

Sette e sei: si parte, anzi, partiamo come dovessi fare i duemila metri. L’anno scorso partimmo già in cadenza, ma il mare era un olio, quest’anno i nervi sono saltati e dalla rabbia siamo partiti scagliandoci contro onde, vento, corrente, mare e scirocco, un incrocio bastardo.

Ed è subito un inferno.

Cerco di appaiarmi ad Ottino il torinese, mi guarda, vedo schiuma, non lo vedo più. Lo rivedo che accosta a sinistra, preferisco andare a destra. Punto all’isola di Palmaiola come d’accordo con Giannini il mio barcaiolo che mi raggiunge di fianco, mi supera, va a destra, a sinistra, si mette di fianco, mi urla che non ce la fa. A bassa velocità il gozzo scarroccia e lui non ce a fa a tenere la rotta.

“La vedi Palmaiola? Punta là Cerco di starti a fianco, quando sbagli ti raggiungo e ti correggo”. Urla il Giannini ma a me non riesce prendere nessun ritmo ne con le gambe ne con le braccia, neppure quello delle onde rapide e basse. A mitragliatrice picchiano spruzzi sulla mschera e mi tocca tirar su testa e collo per vedere l’isola di Palmaiola. Allora aumento il ritmo delle bracciate, con la voglia di pestare il mare: oggi è proprio un bastardo.

Prima regola: mai affrontare il mare, accanendosi si va in affanno e vince sempre lui. Riduco e aumento con le pinne, spingo forzando con la punta dei piedi sui puntali in cima alla scarpette, le pinne scaricano acqua dai fianchi, piego le ginocchia e quasi rotolo su un improvviso treno di piccole onde piene di corrente. Mando al diavolo tutti, ci ripenso e mi mando al diavolo, perchè nessuno me l’ha ordinato di fare l’Elba-Follonica e, se son lì a fare lo scemo con le onde, la colpa è solo mia, l’ho voluto io e se l’ho voluto solo io devo arrivare di là dove c’è il sindaco con tutti i follonichesi.

Mi calmo e cerco di vedere dove sono gli altri. Non vedo nessuno, chiamo “Giannini!”.

Accosta. “Dove sono gli altri?”. “Sono tutti avanti, ma non di molto”. Tanto per rincuorarmi. L’anno scorso ero quarto. Ho preso il mare troppo di fronte, troppo di punta, devo affrontarlo più di lato. Cerco una rotta da veder Palmaiola più sulla destra e meno di fronte e cerco di indovinare la cadenza delle onde. Conto “uno due tre”. No, sbaglio, arriva un po’ prima. “Uno due” . Non ci siamo ancora, così anticipo. “uno due tre”. Così, si così forse ci siamo, c’è questo tempo tra un’onda e l’altra, devo contare più velocemente e tirare appena più di gambe che di braccia. Palmaiola è di fianco a destra finalmente. Giannini si fa vicino “Senti, ne hai due dietro: terz’ultimi. Ora punta su Cerboli”.

I livornesi di sicuro saranno quelli che ho ripreso ma sono contento perchè una specie di ritmo l’ho trovato e qualche risultato è venuto.: non sono più ultimo anche se ne ho la bellezza di dodici davanti. Cerco di forzare di più e guardo l’isolotto di Cerboli: quasi uno scoglio che non vuole nessuno, abbandonato in mare. Su Palmaiola ci sta la Torre del faro, su Cerboli no, nemmeno una capanna, eppure è bello: si vede anche il verde dell’erba. Il verde? Se vedo il verde vuol dire che c’è meno schiuma meno spruzzi meno onde, devo forzare di più. E Cerboli passa con il suo verde che non vuole nessuno.

La tranquillità trovata a ridosso dell’isolotto finisce presto in un nuovo miscuglio di onde e corrente contraria. Intanto sono ad oltre un terzo dell’intero percorso. Ora non ho più niente da vedere, davanti a me c’è acqua, e tante onde. Allora cerco Giannini che è di fianco una decina di metri sulla sinistra a far l’altalena sulle onde. Lo vedo con un’incerata addosso, forse piove o sta per piovere, non lo so perchè di spruzzi ce ne ho tutt’intorno e le nuvole corrono con il vento e coprono il sole. Giannini mi vede deviare verso di lui e mi urla: “Ne hai ripresi almeno altri due, ora ce ne hai quattro di dietro e forse di più”. “Bene, dammi un paio di banane e del succo di frutta”. Così nuotando sul dorso mangio banane che non sanno di nulla per il sale che ho in bocca ed il succo di frutta non sembra nemmeno lontanamente dolce.

Finito il pasto insipido mi rigiro dal nuoto sul dorso e vedo sotto di me dei piccoli lampi d’argento: son pesci che passano e si voltano in su mostrando i fianchi d’argento. Mi distraggo, si avvicinano e così distinguo dei suri e degli sgombri; qualcuno più curioso degli altri risale e si ferma ogni tanto a guardarmi, poi parte veloce.Dietro e più profondi passano tutti a branco come folate di vento e riappaiono lucciole lontane.

Rimango solo di nuovo, ma sono oltre la metà del percorso, anche se il mare rimane una peste. Sento delle voci: è il Commissario di gara che dice a Giannini che siamo fuori rotta, troppo a sud. Solo i primi tre l’hanno azzeccata: si sono lasciati trasportare dal mare e dalla corrente e sono volati come una schioppettata sotto costa dalle parti della Torre del Sale. Troppo a nord ma in effetti non hanno preso di punta il mare come il mio gruppo. Così ora nuotano sottocosta verso Follonica con il mare di fianco.

Viriamo verso nord, Giannini davanti con il gozzo che va via sbilenco ed io dietro. Il mare che ci trascina via e ci spinge a nord da quasi fastidio, ormai l’idea che la rotta di sud sia la migliore ce la siamo ficcata in testa sin dalla partenza io e il Giannini. Dopo un’oretta viriamo di nuovo e testardi ci incaponiamo verso sud.

L’errore lo vedremo alla fine, al traguardo, esclusi i primi tre, tutti gli altri concorrenti, me compreso, avremo percorso circa 42 chilometri invece dei 32 previsti. Con tutti quei cambiamenti di rotta abbiamo disegnato una grossa zeta da Cavo dell’Elba a Follonica sulla costa e il tempo ottenuto da me me lo confermerà, otto ore e mezzo.

Ma questo sarà la saggezza di poi.

Verso Follonica la foschia stende il suo velo; nasconde la costa, le colline e il ‘grattacielo’, la costruzione più alta della cittadina. Finalmente quasi di colpo appaiono le colline, ombre lontane. Mi sembra impossibile non averle viste prima. Cerco di tenere fuori il capo sopra le onde e fissarle il più possibile: magiche calamite. Mi stanco, riprendo la posizione di prima e nuoto più allegro con le colline nella testa. Ombre sotto di me, immediatamente macchie si allungano in neri serpenti, e marroni e verdi s’alternano: è il fondo, ormai mancano 4 o 5 chilometri.

Si avvicina una barca a motore e da bordo urlano che sono settimo. Primo Viarengo, il vincitore di sempre, secondo Giannetta, il Carabiniere della Nazionale, terzo Cosmo, la rivelazione di questa sofferta traversata. Tutti e tre ce l’hanno fatta, lasciandosi trascinare dalle onde verso Torre del Sale poi raggiungendo Follonica sottocosta. Segue il gruppo dei testardi come me, qualli che hanno voluto affrontare il mare ci punta. In sei siamo circa a due ore dai primi, chi più e chi meno. Dopo basta: dei quindici partiti sei si sono ritirati e tra questi l’altro Nazionale Bettazzoni, il torinese Ottino e l’unica donna, la Paola Pampana di Livorno.

Il ‘grattacielo’ è ora nitico davanti a me anche se le onde tentano di nasconderlo; Giannini continua ad urlare “dai che sei arrivato”, gli ultimi chilometri non finiscono mai. Vedo le finestre del ‘grattacielo’, il Giannini che innalza il mio numero di riconoscimento su un rettangolo di plastica a prua del gozzo, ancora onde e spruzzi di schiuma, una striscia nera lungo il litorale, infine la spiaggia, un pontile e dei festoni. Punto diritto sui festoni, la striscia nera diventa folla, è gente in piedi sulla terraferma, urto un cavo: è l’arrivo!

Sergio Richard,
da F.I.P.S. Veneto